Uomo, animale migrante

17/02/14

17/02/14


Gruppi di nostri lontani progenitori, appartenenti alla forma più arcaica di Homo sapiens, vivono in diverse parti del Vecchio Mondo già 300 mila anni fa. Secondo gli studiosi Luca e Francesco Cavalli-Sforza, dall'Africa la nostra specie Homo sapiens sapiens, si diffonde in tutto il globo nel giro di 60-70 mila anni, dando prova di grande capacità di adattamento culturale e forse anche biologico agli ambienti più diversi.

Centomila anni fa è in Medio Oriente, dopo altri 40 mila anni in Cina, e nella stessa epoca raggiunge, naturalmente via mare, la Nuova Guinea e l'Australia; lo troviamo in seguito in Europa orientale e poco tempo dopo in Francia, intorno ai 35-40 mila anni fa. Si spinge anche in Siberia e da lì, circa nel 13 mila p.e.V., raggiunge le Americhe. Forse anche prima, approfittando del lungo periodo in cui le acque, nel corso dell'ultima glaciazione avvenuta tra i 110 mila e i 12 mila anni fa, si ritirano per concentrarsi nei ghiacciai polari e lo stretto di Bering diventa terra emersa.

Basterebbe questo quadro a far comprendere che le differenze esteriori tra gli esseri umani sono il frutto di adattamenti alle condizioni ambientali relativamente recenti, rispetto all'arco di vita della nostra specie: la genetica, del resto, ha chiarito che il concetto di "razze umane" non ha alcun fondamento scientifico.

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Già negli anni Settanta lo scienziato americano Richard Charles Lewontin ha analizzato le variazioni genetiche di sette presunte razze umane: i caucasici, gli africani sub-sahariani, i mongolidi, gli abitanti del Sud-Est asiatico, gli aborigeni australiani, quelli dell'Oceania e i nativi americani. I suoi studi hanno dimostrato che le variazioni tra queste "razze" sono solo del 7%, mentre la variabilità genetica all'interno dei singoli gruppi arriva all'85%. Questi risultati sono stati confermati in seguito dall'analisi dell'équipe scientifica di Cavalli-Sforza padre, effettuata su un campione più ampio di sedici popolazioni in cinque continenti.

Anche se tra gli esseri umani le differenze esterne come, ad esempio, il colore della pelle e degli occhi, i lineamenti del viso, l'altezza, sono le più evidenti (proprio perché riguardano la porzione del nostro corpo più soggetto all'influenza dei fattori ambientali), la scienza ci dice che gli attuali sette miliardi di individui abitanti il pianeta Terra discendono tutti da un piccolo gruppo di antenati ancestrali che hanno trasmesso loro una grande porzione di genoma di base comune.

Eppure i ballerini fondamenti teorici del razzismo, fatti propri dall'eugenismo, vengono posti paradossalmente proprio nei secoli delle grandi conquiste scientifiche e delle scoperte geografiche. Questi costituiscono in realtà la necessaria produzione ideologica da parte delle classi dominanti per giustificare quella accumulazione originaria di cui parla Karl Marx ne Il Capitale, basata sull'espropriazione delle ricchezze e del pluslavoro di popoli interi in America, Africa e Asia.

Colore della pelle e arretratezza economica vengono così messi in relazione per proclamare una inferiorità genetica di quelle popolazioni e il conseguente diritto-dovere per i conquistatori bianchi di asservirle e tentare di "civilizzarle". In seguito saranno anche utilizzate per tentare di mettere gli uni contro gli altri lavoratori di nazionalità diverse.


Croste di quelle teorie continuano ancora oggi a ripresentarsi, incuranti del fatto che da un punto di vista scientifico (e quindi della realtà oggettiva dei fatti) nessun gene può essere racchiuso in dei confini nazionali inventati pochi decenni fa, né può essere considerato in pratica caratteristico di una popolazione umana, anche a causa delle continue migrazioni che hanno determinato, e tuttora determinano, un continuo rimescolamento del patrimonio genetico. Questo in barba a ogni volontà politica, timore, o follia filosofica prodotta da alcuni uomini.