Nato nel 1898 a Šegotici, in Croazia, cominciò la sua attività politica durante le guerre balcaniche del 1912-1913 partecipando alle manifestazioni nazionalistiche anti austriache. Dall'Istria all'Ungheria, passando per Bosnia, Cecoslovacchia e Slovenia: ovunque andasse lasciava la sua impronta politica.
Nel 1920 l'Italia annette l'Istria ai suoi possedimenti e l'anno dopo Ciliga prende parte alla feroce resistenza militare allo squadrismo fascista, culminata con la "rivolta di Proština". Viene quindi perseguitato dai fascisti e si rifugia a Zagabria dove milita nel Partito operaio indipendente della Jugoslavia, nato dopo la messa al bando del Partito Comunista Jugoslavo, e ne diviene capo nel 1924. Un anno dopo viene arrestato per la sua attività comunista ma rilasciato dalle autorità italiane in agosto.
A settembre è a Vienna come rappresentante della Federazione Comunista Balcanica, mentre un anno dopo si sposta a Mosca dopo il trasferimento della base operativa dall'Austria. Frequenta inizialmente i trotskisti ortodossi finché, il 21 maggio 1930, viene arrestato ed incarcerato per la sua attività di opposizione allo stalinismo. E' nel 1931 che comincia la sua analisi dello stato sociale dell'URSS, criticando apertamente la burocrazia staliniana. Erroneamente, però, egli giudica con filo di continuità il periodo sotto il comando politico di Lenin e quello sotto Stalin.
Trasferitosi a Parigi dopo un anno passato nei gulag e rimastovi fino al 1940, abbandona l'attivismo politico per dedicarsi all'intellettualismo letterario. Nello stesso anno torna in Croazia, allora dominata dal regime fascista degli ustaša di Ante Pavelic. Dopo due arresti e l'internamento in un campo di concentramento si "adatta" al regime e copre il ruolo di caposezione del giornalismo croato presso il Ministero degli Esteri. A metà degli anni Cinquanta si trasferisce a Roma, dopo aver transitato a Vienna, Berlino, in Svizzera ed ancora a Parigi. Muore il 21 ottobre 1992, un anno dopo essere tornato nella natia Croazia, diventata indipendente.
Nel suo libro Au pays du grand mensonge, 1938 ("Nel Paese della grande menzogna"), a proposito del capitalismo di Stato in URSS, scrive:
Ecco la sostanza delle mie dichiarazioni: se il primo stadio della rivoluzione russa, quello di Lenin, ci insegna in quale modo si deve agire, il secondo, quello di Stalin ci insegna in qual modo non si deve agire. Il piano quinquennale [NdA: ossia lo sfruttamento inumano degli uomini nelle fabbriche fortemente voluto da Zinov'ev ed attuato da Stalin] è progressista, ma non socialista. Se si dovesse giudicare in base al numero delle fabbriche, il socialismo sarebbe realizzato da un pezzo in America. Il socialismo non è una fabbrica; è un sistema di relazioni fra gli uomini. Queste relazioni, quali sono in Russia, non hanno niente di socialista. La collettivizzazione non è una lotta fra socialismo e capitalismo, ma un duello tra il grosso capitale dello Stato e il piccolo capitale privato. La lotta di Stalin contro la destra è attenuata da un gran numero di compromessi: è la lotta del centro contro l'ala destra. Stalin finirà con l'intendersi con la destra, come Kautsky si è inteso con Bernstein [NdA: l'opportunista Karl Kautsky rinnega il marxismo e si scaglia contro i bolscevichi]; invece la sua rottura con la sinistra è definitiva, come fu definitiva la rottura di Kautsky con Rosa Luxemburg e Liebknecht [NdA: capi rivoluzionari tedeschi assassinati dai socialdemocratici nel 1919]. Quanto a Trotsky, egli è ben lontano dal valore di Lenin, ma è di gran lunga superiore a Stalin. Nel campo della politica estera, accusavo gli staliniani di condurre il movimento operaio dei Paesi capitalisti da una sconfitta all'altra e di trattare operai e comunisti stranieri non come eguali e fratelli, ma come servitori e valletti.
Era, ricordiamolo, il 1938.