Il mercato dell'acciaio

19/12/12

19/12/12


Negli ultimi quarant'anni la domanda di acciaio nelle metropoli ha subito un mutamento qualitativo grazie alla ristrutturazione del settore. Il crescente contenuto di acciaio delle importazioni ha indirettamente sostituito una quota del consumo interno, mentre una parte, maggiore in Europa e in Giappone, era a sua volta incorporata nelle esportazioni. Infine, l'esaurimento dei cicli di messa in opera delle grandi reti di trasporto (build-up infrastrutturale) ha ridotto il peso delle costruzioni, soprattutto in America dove la politica fiscale del reaganismo trascurò le spese di manutenzione.

Gli investimenti nelle infrastrutture svolgono un ruolo centrale nel consumo di acciaio. Nelle metropoli sono calati dal 3 al 2 % del reddito negli ultimi trent'anni, mentre nelle nuove potenze crescevano dal 4 al 6 % circa. La soglia del 5 % potremmo paragonarla al massimo momento di costruzione ferroviaria dell'industrializzazione inglese di metà Ottocento. Secondo la società di servizi Ernst & Young nel prossimo decennio l'investimento sarà dell'1 % in USA, del 2 in Europa e del 4 in Cina.


L'altra gamba dell'estensione della siderurgia mondiale sono i mezzi di produzione, inclusa la siderurgia stessa: si dice che gli impianti integrati "mangino capitale a colazione". Circa un quinto del valore dell'acciaio venduto nel mondo va alla produzione di macchinari industriali. Un terzo in Cina. A sua volta la metallurgia costituisce circa un terzo dei consumi intermedi dell'industria mondiale dei macchinari.

La siderurgia è una proteina del capitalismo, assimilata da quella sezione dell'industria mondiale che produce i mezzi di produzione e rende possibile l'accumulazione del patrimonio produttivo della borghesia, ossia la base del suo potere politico. Dagli altiforni del Dragone emergono i gruppi che sovvertono i rapporti di forza mondiali e gettano le basi della rottura dell'ordine. Inoltre, la produzione per la produzione si autoalimenta, e oggi l'80-90 % degli impianti di un gruppo come la Baosteel di Shanghai è costruito in Cina, con acciaio cinese.

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Settori di destinazione dell'acciaio mondiale prodotto

Una visione d'insieme può venire dalle classifiche globali della rivista americana Fortune, la quale fornisce un'idea settoriale dei rapporti fra le 500 maggiori concentrazioni. Durante la crisi (2007-2011) sono scomparsi dalla classifica 32 gruppi bancari e apparsi 13 gruppi dell'energia e 8 del settore metallurgico-minerario. Anche l'auto è toccata, sostituita da altri settori manifatturieri.

La dinamica è fortemente ineguale fra le potenze: prima della crisi comparivano 167 gruppi nordamericani e 184 europei. Nel 2011 sono 143 e 153. È un bilancio parziale di questi anni di lotte economiche: l'Atlantico ha perso 55 delle prime 500 posizioni mondiali, il Pacifico ne ha guadagnate 49. Nel 2007 la Cina aveva 29 gruppi, cinque anni dopo ne ha 73. La crisi ha fatto emergere concentrazioni cinesi con un peso pari a quello dei gruppi giapponesi, che sono 68.

Seguiamo la metallurgia, settore che si rafforza nella crisi. Nel 2007 comparivano 12 gruppi: due americani, tre europei, tre giapponesi, due cinesi e altri due asiatici. L'anno seguente questi gruppi salivano a 19, mentre si contraevano i settori legati alla finanza: comparivano tre gruppi cinesi, due russi e uno brasiliano. Nella recessione dell'economia reale del 2009 i gruppi metallurgici tornavano a 15. Sono 16 nel 2011 ma, se dei 12 gruppi del 2007 solo due erano cinesi, ora ne abbiamo sette.


Vediamo la produzione siderurgica in tonnellate. Sono bastati alcuni anni: sette dei primi undici produttori mondiali di acciaio oggi sono cinesi. Hebei Group è al secondo posto e Baosteel al terzo.

Uno studio di ArcelorMittal dice che, nel 2006, 1.2 miliardi di tonnellate dell'acciaio prodotto nel mondo costavano 850 miliardi di dollari, nel 2008 1.3 Mt costavano più di mille miliardi e l'anno seguente 1.2 Mt circa 600 miliardi. Nella comparazione delle forze tra i gruppi vanno considerate sia le differenze qualitative dei prodotti, la diversificazione, la robustezza finanziaria, sia le oscillazioni dei prezzi, che hanno riflessi ineguali nei fatturati.


La siderurgia cinese

Il quadro dei gruppi cinesi, comunque, conferma le previsioni che si potevano fare qualche anno fa: dal mare della produzione del Dragone emerge un pugno di grandi produttori concentrati. La piccola produzione resta estesa, tanto che il Financial Times riportava nel 2011 che la Cina produce 40 mt in più di quelli che dichiara, perché le acciaierie inefficienti che il governo voleva chiudere continuano a sfornare acciaio in nero. Sono l'equivalente di una buona annata tedesca, naturalmente con diverse caratteristiche di valore.

È probabile che i primi dieci gruppi arriveranno a controllare il 75 % del mercato cinese nel giro di qualche anno; solo allora il governo di Pechino permetterà ai produttori stranieri di entrare pienamente in Cina, come fu in Europa dopo il Piano Davignon, ma nel frattempo i produttori cinesi più forti avranno penetrato il mercato mondiale con acciaio e investimenti. Essi dispongono di una domanda interna vorace, ma stanno cominciando anche a esportare. Entrano nelle produzioni più avanzate, anche attraverso la simbiosi con i gruppi dell'auto.

Il ritmo della concentrazione cinese è la combinazione originale del respiro di un mercato interno continentale, differenziato per stadi di sviluppo, e della ristrutturazione dei grandi gruppi mediata dalla pluralità di sovrastrutture centrali e locali.

La storia dello sviluppo e delle crisi della siderurgia cinese è ancora in gran parte da scrivere, ma è scritto già da tempo nel DNA della nostra epoca che non sarà lineare, né graduale, né "armoniosa", tantomeno pacifica.

Anno dopo anno la Cina accumula una produzione siderurgica quasi pari a quella del resto del mondo. I suoi grandi gruppi hanno già patrimoni del calibro dei concorrenti internazionali. Oggi questa produzione mondiale è mandata avanti da quasi due milioni di salariati, di cui la metà cinesi.