Facebook & Co. tra privacy, tasse e pubblicità

15/05/13

15/05/13


Nella battaglia delle telecomunicazioni, i governi europei scoprono solo ora che gli OTT (Over The Top) statunitensi, cioè gli operatori che forniscono servizi di radio e telediffusione su Internet quali Google, Yahoo!, YouTube, Skype e Facebook, pagano tasse ridicole al Vecchio Continente.

A gennaio di quest'anno il giovane ministro francese socialista per l'Economia digitale Fleur Pellerin ha dichiarato aperta la guerra alla "nuova pirateria fiscale" di Google, Apple, Facebook. Poco dopo scoppiò l'affaire Cahuzac, in cui il suo compagno di partito Jérôme Cahuzac fu proprio accusato di frode fiscale.


Il sandwich per pagare meno tasse

Con l'appoggio di Gran Bretagna e Germania, il governo parigino si è rivolto all'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), la quale ha deciso di proporre al G20 una riforma delle regole delle ICT (Information and Communications Technologies): occorre trovare una formula che aiuti a localizzare i ricavi delle multinazionali; tutte adottano una finanza "creativa", ma alcune godono di vantaggi particolari, sia fiscali che legali.

Secondo il New York Times, è la Apple ad aver assunto fin dagli anni '80 il ruolo di pioniere del metodo "double irish with a dutch sandwich", poi adottato da altri gruppi. La tattica consiste nel far confluire ricavi e guadagni internazionali su due società irlandesi, una delle quali appoggiata in un paradiso fiscale e una olandese, beneficiando in questo modo di sconti fiscali multipli.

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Schema double irish with a dutch sandwich
Grafica esplicativa sul sistema di evasione "double irish with a dutch sandwich"
(Fonte: New York Times)

Tutti i grandi gruppi, prosegue la testata newyorkese, cercano di minimizzare gli oneri "ma le società tecnologiche sono particolarmente ben posizionate nella corsa ad avvantaggiarsi di codici fiscali scritti per l'età industriale e inadatti all'era dell'economia digitale". Secondo la stessa fonte, negli ultimi due anni le 71 società tecnologiche comprese nello Standard & Poor's Index 500 hanno pagato in giro per il mondo tasse che, in rapporto ai guadagni, sono di un terzo inferiori a quelle pagate dai rimanenti 429 gruppi.


La dubbiosa raccolta dati degli utenti

I Garanti della privacy dei sei maggiori Paesi dell'Unione Europea hanno aperto un'inchiesta coordinata sulle attività di raccolta dati messe in atto da Google, per verificare se violino codici e standard europei.

Due funzionari francesi, uno dei quali ispettore delle Finanze, ci offrono una descrizione della mole di dati che gli OTT mettono lucrosamente a disposizione di altre aziende: "Nell'economia digitale tutto lascia traccia [...] i dati degli utilizzatori delle diverse applicazioni sono raccolti senza contropartita monetaria", così gli internauti "diventano dei quasi-collaboratori benevoli delle imprese" e i dati sono frutto "del loro lavoro gratuito" (Rapporto P. Collin & N. Colin).

Il Financial Times ha cercato di individuare le basi del fenomeno. In primo luogo cresce l'attività online: Facebook ha superato il miliardo di fruitori, YouTube ha raggiunto la stessa cifra sui visitatori mensili, e il traffico mondiale di Internet ha raggiunto l'anno scorso l'astronomica cifra di 2.6 zettabyte (ovvero 2600 miliardi di gigabyte, 26 milioni di volte i testi di Wikipedia). In secondo luogo sono calati i costi di gestione: vent'anni fa per immagazzinare un gigabyte erano necessari un computer della stazza di un frigorifero e una spesa di 1000 dollari; oggi uno smartphone ha capacità di diversi GB e il costo di storage di un gigabyte è sceso a circa 5 centesimi di dollaro.

Facebook & Co. tra privacy, tasse e pubblicità

Questa evoluzione si incontra con una vera e propria "bulimia delle imprese", come la definisce il quotidiano britannico, alla ricerca di qualsiasi ritrovato possa aiutare a risollevarsi dalla palude del mercato. Nasce così la redditizia attività del data mining, ossia l'estrazione di dati.

Ovviamente i dati oggi recuperabili dalle attività sul web non sono strutturati, ma devono essere assemblati e trattati: a questo pensano gli algoritmi dei matematici riciclati dopo lo scoppio della bolla finanziaria avvenuto nel 2008. Lo scopo è quello di tracciare profili per la pubblicità mirata o ancor più quello della pubblicità just-in-time, che arriva sul cellulare quando la geolocalizzazione dice che sei nelle vicinanze di un determinato negozio.

Il Financial Times mostra qualche scetticismo, perché la meta potrebbe essere quella ottenuta da un grande gruppo calzaturiero: "Ha trascorso diversi mesi alla ricerca dei fattori che spingono i clienti a comprare un certo tipo di scarpe. Il risultato è stato banale: la gente tende a comprare scarpe pesanti d'inverno e sandali d'estate". Secondo altri, l'estrazione e l'elaborazione dei dati stabilisce correlazioni certe tra fenomeni apparentemente scollegati. Nel libro Big Data: una rivoluzione che trasformerà il nostro modo di vivere, lavorare, e pensare di Viktor Mayer-Schonberger e Kenneth Cukier, leggiamo che si tratta di "uscire dalla secolare ossessione della causalità, accettando semplici correlazioni: non conoscere il perché, ma solo il cosa". Cartesio si starà sicuramente rivoltando nella tomba.

Secondo Franco Bernabè, AD di Telecom Italia, le varie Google, Amazon, Facebook raccolgono dati direttamente attraverso server ubicati negli Stati Uniti, dove vige la più totale deregolamentazione, con il risultato che da un lato non si rispettano i diritti dell'utente, e dall'altro si penalizzano le aziende europee. La legislazione va quindi rivista per bilanciare il gioco. Insomma, Telecom Italia è in difficoltà e vorrebbe partecipare alla spartizione della fetta di torta tirando in ballo diritti di privacy che la stessa azienda, talvolta, non ha rispettato.

Data mining

La statunitense Yahoo! ha reso milionario un diciottenne inglese, Nick D'Aloisio, comprando la sua applicazione Summly. Si tratta di un dispositivo che cerca notizie dal mondo e le spreme in sunti di 3-400 parole. Chi lo utilizza può impostarlo in base alle tematiche e alle fonti preferite. Un'altra prova, purtroppo, che nella società odierna la stringatezza prende il posto dell'approfondimento.


Gli introiti pubblicitari

Ancora una volta gli OTT sono in vantaggio sui media della tradizionale carta stampata. Un'occhiata alle entrate della pubblicità mostra la tendenza e le ragioni della reazione. Gli editori europei si sono mossi contro Google e il suo servizio Google News accusandolo di violazione del copyright. Al gruppo di Mountain View viene imputato di lucrare a sbafo sul lavoro delle redazioni giornalistiche.

In Francia è stato trovato un accordo di compromesso: Google devolverà per alcuni anni la cifra di 60 milioni di euro a un fondo destinato ad accompagnare la transizione digitale della carta stampata. Questa cifra è inferiore alla metà di quanto ogni anno Google dovrebbe pagare al fisco parigino se non ottimizzasse i suoi metodi contabili.

In Germania è passata la Google Lex, in cui si stabilisce il principio che i siti di notizie online devono pagare i diritti e ricevere il consenso per pubblicare news estrapolate da giornali e settimanali. Grazie a una postilla, tuttavia, si prevedono di numerosi contenziosi legali, poiché esclude da questo obbligo "singole parole o brevi stralci di testo, come i titoli".

Da noi, invece, la Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG) protesta, ma governo e parlamento sono in altre faccende affaccendati.

Nella caccia agli introiti pubblicitari i quotidiani cercano di difendere la loro posizione, minacciata da anni da TV e Internet. A loro volta i grandi gruppi e le agenzie pubblicitarie si cautelano e, attraverso la politica dei prezzi, mostrano di voler verificare i ritorni effettivi.

Pochi anni fa il capo dell'americana NBC(posseduta al 49% da General Electric), Jeff Zucker, ammonì che lo spostamento della linfa pubblicitaria dai vecchi ai nuovi media avrebbe trasformato dollari analogici in penny digitali. Le cifre di una recente ricerca sembrano dargli ragione: per ogni mille supposte visualizzazioni le agenzie pagano 51 dollari ai quotidiani, 29 alla TV, meno di 5 ai PC e 1.3 a smartphone e tablet. In questo campo gli OTT devono ancora vincere la loro battaglia. Sui neuroni degli utenti.