La questione palestinese - Parte III

22/08/13

22/08/13


Prima parte, seconda parte


L'interferenza delle altre potenze

Nei calcoli delle grandi potenze c'era ancora evidentemente un possibile futuro dell'OLP: i palestinesi furono dapprima salvati a Beirut da una forza internazionale patrocinata dagli Stati Uniti d'America insieme a Francia e Italia. Successivamente, nel 1983, navi greche scortate da navi da guerra francesi trasportarono Arafat e 4 mila palestinesi dal Libano al nuovo quartier generale di Tunisi.

L'URSS mirava intanto a tenere aperte tutte le contraddizioni perché ciò favoriva la sua espansione a Sud. Gli USA tentavano di applicare una politica di bilancia militare appoggiando Israele, in modo costante, ma bloccandolo altrettanto costantemente, quando stravinceva militarmente. Ciò è avvenuto in particolare nel 1956, nel 1967 e nel 1973.

Vendendo armi a Israele, Egitto, Giordania e Arabia Saudita, gli Stati Uniti regolavano il rubinetto della conflittualità militare e cercavano di ottemperare gli interessi delle lobbies ebraiche e di quelle arabe, capeggiate dalle multinazionali del petrolio e dai potenti esportatori di armi.

Israele tentava di impedire la formazione di uno Stato palestinese indipendente sostenendo che tale Stato già esisteva nel regno di Giordania.

A distanza di trent'anni, Israele non ha ancora risolto il problema della rappresentanza politica della borghesia palestinese al proprio interno, dato che i cittadini arabo-israeliani continuano a essere discriminati.


Prima intifada e appoggio a Saddam Hussein

Dopo la fuga dal Libano, emarginata a Tunisi, l'Organizzazione di Arafat aveva il problema di non finire completamente fuorigioco. Venne salvata nel 1987 dall'esplosione dell'intifada (la "guerra delle pietre" che provocò 2300 morti), che riportava i palestinesi all'attenzione dell'opinione pubblica internazionale e permetteva così all'OLP di uscire dall'angolo.


L'Organizzazione non si fece sfuggire questa occasione e nel novembre 1988 il Consiglio Nazionale Palestinese, riunito ad Algeri, riconobbe l'insieme delle risoluzioni ONU sulla Palestina, compresa la 242. Veniva così riconosciuto il diritto all'esistenza di Israele. L'OLP proclamò anche la rinuncia al terrorismo e la fondazione dello Stato arabo di Palestina (pur senza dimensione territoriale), che venne riconosciuto da molti Paesi.

Lo scoppio della Seconda guerra del Golfo trovò tuttavia Arafat e la sua Organizzazione impreparati a capire il nuovo quadro internazionale che la crisi dell'URSS andava delineando: Arafat e Hussein di Giordania furono infatti gli unici leader arabi a schierarsi con Saddam Hussein.

Particolarmente critica era la situazione di Arafat, isolato geograficamente a Tunisi, emarginato politicamente dal mondo arabo e quindi dai suoi grandi finanziatori, e, per di più, abbandonato anche dalle grandi potenze che avevano combattuto contro Saddam. Ma l'intenzione dell'imperialismo americano di capitalizzare la vittoria anche per cercare di accelerare la sistemazione del Medio Oriente e in particolare per risolvere la questione palestinese, divenne il salvagente a cui Arafat poté aggrapparsi: Israele, dal canto suo, era consapevole che la debolezza dell'OLP rappresentava un ulteriore elemento di vantaggio nella difficile trattativa.


Tentativi effimeri di pace

La Conferenza di Madrid per rilanciare il negoziato tra Israele e l'OLP ebbe luogo nell'ottobre del 1991, cioè pochi mesi dopo la fine della guerra del Golfo. Le trattative proseguirono poi segretamente e si conclusero con la firma degli Accordi di Oslo, che prevedevano il reciproco riconoscimento tra Israele e OLP e l'avvio di un processo che avrebbe dovuto portare alla nascita di uno Stato palestinese. Arafat e il capo del governo israeliano Yitzhak Rabin (1922-1995, fondatore nel 1941 delle Palmach, le squadre d'assalto antinaziste in affiancamento ai britannici), firmarono gli Accordi il 13 settembre 1993 davanti agli obiettivi di tutte le televisioni del mondo, sul prato della Casa Bianca a conferma del decisivo ruolo americano nella trattativa, e sotto gli occhi di Bill Clinton.

La storica stretta di mano tra Rabin e Arafat sotto l'ala statunitense di Bill Clinton

Gli Accordi prevedevano l'instaurazione di una pace definitiva per il maggio 1999, data nella quale era dunque implicitamente previsto che i palestinesi avrebbero avuto il loro Stato.

Nel maggio 1994 venne firmato il primo accordo applicativo in cui si definiva la prima entità territoriale del futuro Stato palestinese: il 60 % della Striscia di Gaza e la città di Gerico in Cisgiordania. Ciò permise ad Arafat, a luglio, di insediare a Gaza l'Autorità Nazionale Palestinese (ANP), di cui divenne leader. Due mesi dopo venne firmato un nuovo accordo che ampliava la zona sotto controllo palestinese, che permaneva comunque a macchia di leopardo. Sempre nel '94 venne anche firmato il Trattato di pace tra Israele e Giordania.

Rabin, come del resto era accaduto all'egiziano Anwar Sadat, pagò con la vita quella firma: venne infatti ucciso da un estremista religioso ebraico nel novembre del '95.

Da allora il cammino degli Accordi di Oslo è diventato sempre più difficile: nel campo palestinese sono andati prevalendo i gruppi terroristici che si oppongono alla nascita di Israele e che sono dunque finanziati da quei Paesi arabi che non hanno alcun interesse agli accordi (primo fra tutti fu l'Iraq di Saddam), perché li priverebbero della carta palestinese e della possibilità di indebolire Israele con la essa.

Nel campo israeliano ha prevalso per qualche tempo la linea secondo cui la sicurezza strategica di Israele imponeva uno Stato palestinese talmente debole da essere inoffensivo: e paradossalmente questa linea offriva ambi margini di intervento ai gruppi terroristici palestinesi di cui sopra.

L'ultimo tentativo di spingere le parti ad accordarsi fu perseguito da Clinton, evidentemente desideroso di lasciare ai posteri un ricordo che non fosse solo quello di Monica Lewinsky: nel luglio 2000, ormai in prossimità della fine del proprio mandato, egli convocò a Camp David il primo ministro israeliano Ehud Barak e il presidente dell'ANP Yasser Arafat, ma anche stavolta senza esito, come la volta successiva negli incontri di Taba in Egitto.

L'ipotesi prevalente attribuisce tale fallimento alla debolezza dei contraenti: Barak, con la disponibilità ad alcune concessioni sul futuro Stato palestinese, come quella di Gerusalemme Est capitale, esprimeva evidentemente una linea politica minoritaria in Israele (come dimostrerà la pesante sconfitta elettorale della primavera dell'anno successivo). Arafat, a cui comunque le concessioni israeliane non bastavano per fare accettare l'accordo alla maggioranza dei suoi, non era in grado di controllare le mille anime dell'ANP, come dimostra la regolarità degli attentati a ridosso dell'avvio di qualunque trattativa. Da ultimo, Clinton a fine mandato, non poteva evidentemente rendere credibile l'indispensabile impegno americano.


Da Sharon ai giorni nostri

Il 28 settembre del 2000, per mettere in ulteriore difficoltà il governo laburista di Barak, il capo dell'opposizione Ariel Sharon compì la famosa visita sulla Spianata delle Moschee con la deliberata intenzione di provocare una pesante reazione da parte dei gruppi estremisti palestinesi, che puntualmente fecero partire la seconda intifada.

Come previsto da Sharon, questa seconda rivolta provocò una ulteriore radicalizzazione dell'opinione pubblica israeliana che portò alla crisi il governo Barak e alle elezioni anticipate nel marzo 2001, stravinte dallo stesso Sharon.

Nell'ottobre di quell'anno, alla vigilia dell'intervento in Afghanistan, George W. Bush si palesò a favore della nascita di uno Stato palestinese. Nei mesi successivi l'Amministrazione Bush, però, espresse due linee differenti: da un lato vi erano coloro che sostenevano la necessità di mettere fine alla crisi della Palestina prima di affrontare l'Iraq; dall'altro quella che ha poi prevalso dell'intervento armato in Iraq al di là della questione palestinese. Secondo questa parte dell?Amministrazione, la guerra in Iraq era prioritaria e propedeutica alla soluzione del conflitto in Terra Santa: l'interesse iraqueno alla tensione israelo-palestinese, infatti, ne faceva uno dei grandi finanziatori dei gruppi terroristici, tra cui al-FatahHamas, il "Movimento Islamico di Resistenza" (appoggiato soprattutto da Iran e Arabia Saudita).

Manifestazione del gruppo terroristico Hamas

L'11 novembre 2004 muore il presidente dell'ANP Arafat, lasciando un patrimonio stimato in almeno 300 milioni di dollari. Gli succede per tre mesi Rawhi Fattuh, futuro parlamentare in Siria, fino alle elezioni di inizio gennaio che vedono vincitore Mahmud Abbas, fondatore ed esponente di al-Fatah attualmente ancora in carica.
 
Dall'inizio della seconda intifada alla sua fine avvenuta nel 2005, altri 6500 morti, di cui l'85 % palestinesi, sono andati ad aggiungersi alla macabra contabilità delle guerre regionali.

Sul finire dell'anno successivo al termine della seconda intifada scoppiò la guerra civile palestinese nella Striscia di Gaza e in parte in Cisgiordania tra la fazione di al-Fatah e quella di Hamas, che vinse di poco le elezioni del precedente gennaio 2006. Questo conflitto portò circa 350 morti, di cui un terzo civili palestinesi non appartenenti ai due gruppi terroristici.

Alla fine del 2008 Hamas viene attaccato per tre settimane dall'esercito israeliano nella "Operation Pillar of Defense", che aveva l'obiettivo di far cessare gli attacchi di missili verso i territori ebraici. Ad oggi la situazione è rimasta invariata, con sporadici attacchi terroristici da parte di Hamas e altri gruppuscoli armati e con le risposte da parte di Israele che non si fanno mai mancare, come la settimana di sangue di metà novembre 2012 che si è conclusa con 175 combattenti morti (55 palestinesi e 120 israeliani), 2 militari della IDF (Israel Defense Forces), e circa 110 civili uccisi, di cui 4 israeliani.

Il 19 luglio di quest'anno il segretario di Stato americano John Kerry annuncia l'ennesima ripresa dei negoziati di pace tra Palestina (ANP) e Israele. A un mese di distanza pare essersi mosso ben poco. Il 13 agosto scorso il passo in avanti di Israele è stato quello di rilasciare 26 prigionieri palestinesi, incarcerati anche da più di vent'anni, ma l'esercito e la polizia continuano a colpire ogni giorno dei palestinesi. Di contro, e contemporaneamente, il governo israeliano ha dato il via, illegalmente secondo il diritto internazionale, alla costruzione di circa 2000 insediamenti nei territori occupati dai palestinesi, intimando loro di non avere "reazioni negative".

Conclusioni

Non serve essere profeti per prevedere che molti altri palestinesi e molti altri ebrei moriranno in nome di un pretesto nazionale che potenze grandi e piccole cercano di usare a proprio vantaggio.

Se non si comincerà a prendere coscienza del fatto che la storia e l'economia del XXI secolo produrranno altre centinaia e centinaia di morti inutili, sarà impossibile uscire dal ginepraio israelo-palestinese e mediorientale e da quelli ben più spinosi in cui questo secolo spingerà la nostra specie.

Bisogna schierarsi con bambini e lavoratori sia israeliani che palestinesi, e non con le rispettive borghesie armate.