La Seconda guerra del Golfo (1990)

13/11/13

13/11/13


Tra il 2 agosto 1990 e il 28 febbraio 1991 fu combattuta una guerra devastante contro il regime di Saddam Hussein. La Seconda guerra del Golfo, definita erroneamente come la prima dimenticando quella tra Iran e Iraq del 1980-1988, produsse più di 20 mila morti e 60 mila feriti.

La crisi dell'URSS, che il crollo del muro nel novembre 1989 evidenziata con uno straordinario impatto simbolico, rese possibile la riunificazione tedesca (ottobre 1990) e, poco dopo, nel dicembre 1991, l'accelerazione del processo di unificazione europea con il Trattato di Maastricht.

Il risultato paradossale e non voluto degli anni Ottanta e del tentativo statunitense di frenare l'URSS e la tendenza al multipolarismo, fu proprio il contrario: venne provocata l'implosione della Russia e, in tal modo, l'accelerazione alla tendenza multipolare, liberando spazi in Europa (che saranno occupati dall'espansione dell'imperialismo europeo in formazione) e in Asia, dove saranno invece occupati dalle grandi potenze come Cina e India.


Non potevano evidentemente mancare conseguenze di grande rilievo in Medio Oriente, dove l'URSS aveva comunque un peso significativo: la prima conseguenza diretta fu l'errore di Saddam Hussein, che si illuse di poter approfittare della fase di caos internazionale per impadronirsi del Kuwait nell'agosto 1990.

In tal modo l'Iraq avrebbe potuto risolvere molti problemi. Avrebbe infatti potuto, soprattutto:

  • disporre finalmente della tanto agognata via libera verso il Golfo
  • entrare da protagonista, grazie alla superiorità demografica e militare, nel Consiglio di Cooperazione del Golfo, cioè l'organismo che riuniva gli Stati petroliferi della regione
  • fare un passo decisivo verso l'egemonia nel mondo arabo
  • risolvere nel migliore dei modi le pendenze con il Kuwait, dai debiti della Prima guerra del Golfo contro l'Iran, allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi di confine

Si trattava di un nuovo tragico errore che doveva rivelarsi fatale per l'Iraq di Saddam. Gli Stati Uniti vennero infatti messi nella condizione di approfittare dell'azzardo di Saddam per dare un segnale preciso al mondo arabo, all'URSS ormai sull'orlo del collasso, ma soprattutto alle potenze riemergenti in Europa ed emergenti in Asia, e poterono farlo sfruttando il potenziale bellico accumulato col riarmo reaganiano degli anni '80.


Il segnale lanciato dagli USA era che tra la fine del bipolarismo (crollo URSS) e l'inizio del multipolarismo, la potenza americana restava l'unica a livello planetario ed era bene che tutti ne prendessero atto. Naturalmente, dimostrarlo con una schiacciante superiorità militare in una guerra legalizzata dall'ONU, era molto più efficace che limitarsi ad affermarlo con qualche dichiarazione solenne.

Gli USA cercheranno di approfittare a fondo della situazione per arrivare a quel "nuovo ordine mondiale" di cui parlò George Bush padre in un famoso discorso all'ONU, ma la situazione mondiale di grande instabilità non lo permise.

Nonostante la forza militare che molti accreditavano all'esercito iraqueno, la guerra non ebbe storia: quaranta giorni di bombardamenti (operazione Desert Storm) e quattro giorni di invasione di terra (operazione Desert Sabre) permisero alle truppe americane di giungere a 100 km da Baghdad.

Il casus belli fu l'invasione del Kuwait da parte iraquena il 2 agosto 1990. In quattro ore 100 mila soldati conquistarono l'emirato e sia monarca che militari kuwaitiani furono costretti alla fuga in Arabia Saudita. Cinque giorni dopo partì la prima operazione, logistica, denominata Desert Shield, che aveva come obiettivo quello di predisporre le truppe prima dell'inizio del conflitto.

Contro l'Iraq di Saddam si unirono 34 Nazioni, sotto l'ombrello dell'ONU e dietro al comando statunitense (700 mila uomini), tra le quali l'Arabia Saudita (100 mila), il Regno Unito (40 mila), l'Egitto (35 mila), la Francia (15 mila), la Siria (15 mila), la Spagna (500), l'Italia (1200), la Germania (con finanziamenti pari a circa 10 miliardi di euro attuali).

Tra minacce da ambo le parti, riunioni delle Nazioni Unite ed embargo all'Iraq, dopo cinque mesi, il 17 gennaio 1991, partirono i bombardamenti con l'operazione Desert Storm, che lasciarono il posto, il 24 febbraio, alla campagna terrestre chiamata Desert Sabre. Quattro giorni dopo il presidente Bush dichiarò la fine delle ostilità a seguito della liberazione del Kuwait, siglando così la vittoria nel secondo conflitto del Golfo.

F-15 e F-16 utilizzati dalla United States Air Force (USAF) durante Desert Storm

La complessità etnico-religiosa dell'Iraq e il rischio (evidenziato dalle forti pressioni di Arabia Saudita e Turchia sugli USA) di conseguenze catastrofiche che l'eventuale crollo dell'Iraq avrebbe potuto provocare sui delicati assetti regionali, indussero il governo americano a lasciare Saddam Hussein al suo posto: gli venne altresì permesso di usare quel che gli restava del suo esercito per massacrare sciiti e curdi, che si erano ribellati perché fiduciosi nel sostegno occidentale.

Anche questa guerra, ennesimo episodio di barbarie imperialistica, comportò grandi perdite in vite umane (civili per la maggior parte) e immani distruzioni: mentre le truppe alleate ebbero poche centinaia di morti, da parte iraquena nessuno si curò nemmeno di calcolare cifre precise. Le stime più accreditate parlano di almeno 20 mila morti, ma il dato per alcuni storici salirebbe anche a 100-150 mila.

La Seconda guerra del Golfo confermò una costante della storia regionale: se Saddam si muoveva nell'ottica di unificare sotto di sé una parte del mondo arabo, gli altri Paesi arabi mostrarono ancora una volta di preferire l'intervento e l'egemonia straniera alla supremazia di una singola potenza mediorientale.

Non potrebbe esserci migliore smentita per i sostenitori della tesi delle guerre di religione in Medio Oriente, o delle tesi circa presunti rischi di colonizzazione islamica dell'Occidente. Il mondo arabo e quello islamico sono in realtà profondamente divisi e deboli: a parte piccole minoranze fanatiche, le classi dominanti preferiscono vantaggiosi legami economici e alleanze politiche con il ricco Occidente piuttosto che le illusioni del panarabismo o del panislamismo.

La conferma più evidente è venuta proprio dalla Seconda guerra del Golfo. Di fronte al rischio di un Iraq troppo forte, la Siria, capofila dello schieramento degli Stati arabi più oltranzisti e antiamericani, dopo essersi già alleata con l'Iran persiano contro l'Iraq arabo, non esitò ad allearsi con gli USA (il grande protettore di Israele!) per fare la guerra ai "fratelli" iraqueni, insieme alla gran parte degli Stati arabi.

Ma l'esempio ancor più clamoroso fu quello dell'Arabia Saudita, custode dei luoghi santi e paladina della variante più intransigente e integralista dell'Islam, quella wahhabita: non solo ospitò soldati stranieri infedeli sul proprio sacro territorio (contravvenendo così a una tradizione che risaliva addirittura al secondo califfo, Omar, che nel 638 e.V. cacciò cristiani ed ebrei dall'Arabia), ma ospitò anche molte donne soldato, in un Paese in cui le donne non potevano neppure guidare l'auto. Proprio per questi motivi fu cacciato Osama Bin Laden, che nel '91 lottava contro USA e monarchia saudita, come abbiamo visto nell'articolo sulla guerra in Afghanistan del 2001.

Di fronte agli interessi economici e politici delle classi dominanti non c'è religione che tenga: nemmeno l'Islam.

La Seconda guerra del Golfo tra Iraq e coalizione ONU può essere considerata come la prima guerra del multipolarismo, seguita da quella del Kosovo del 1996 e dalla Terza guerra del Golfo del 2003.