Negli ultimi anni il settore automobilistico mondiale è quello che più di ogni altro è stato al centro delle cronache economiche con fusioni, acquisizioni, fallimenti e joint-ventures.
I problemi più grossi li hanno avuti gli statunitensi, anche per via di vecchie questioni di management e burocrazia.
Nel 1993, mentre General Motors è in calo da qualche anno anche perché i capi sono accecati dai profitti trimestrali e non ristrutturano il colosso, la Volkswagen è in crisi e il suo timoniere diviene Ferdinand Piëch. È sua la frase "Nessun manager è senza colpa se l'impresa è in rosso". Egli è considerato "l'uomo della rinascita", colui che porta la casa tedesca a produrre secondo il modello della "produzione snella" della giapponese Toyota.
Stiamo parlando di piattaforme, ossia della struttura base di un'automobile su cui vengono montati carrozzeria e powertrain (sistema motore-cambio-trasmissione). L'obiettivo di Piëch è quello di abbassare il numero di piattaforme Volkswagen da 20 a 4 (con un risparmio di circa tre miliardi di marchi tedeschi all'anno - oggi il risparmio previsto è di un miliardo di euro l'anno), aumentando il numero di modelli a 20-30. Siamo a metà anni '90.
Sembrerà strano ma uno dei motivi del successo o del fallimento di una casa automobilistica risiede proprio nella gestione del rapporto piattaforme/modelli, tra la "standardizzazione dell'architettura" e la "diversificazione del vestito" dell'automobile secondo i gusti dei consumatori. Un obiettivo ambizioso, ma per ora vincente.
Oggi Volkswagen comunica di aver progettato una nuova piattaforma, chiamata MQB (Modularer QuerBaukasten) che monterà inizialmente su un'Audi A3 l'anno prossimo. Questa piattaforma ha la particolarità di avere sempre motori trasversali ma, soprattutto, di essere modulabile, ossia di permettere la costruzione di modelli (il colosso di Wolfsburg ne prevede una sessantina dei marchi VW, Skoda, Audi e Seat) con le componenti di misure diverse. Sarà quindi possibile avere la stessa piattaforma MQB su un SUV piuttosto che su una station wagon od una berlina, ed avere un motore a GPL, diesel o benzina.
Oltre all'abbattimento dei costi è anche importante il marchio, il brand, perché è uno status sociale ed una "proiezione psicologica individuale". È chiaro il tedesco Roland Berger (esperto di auto e consigliere anche di Marchionne) nel 2008: "L'auto, per avere successo, deve appassionare, suscitare emozioni, rappresentare un certo status."
L'ufficio ricerca e sviluppo del secondo produttore di auto mondiale stappa bottiglie di champagne.
Si è scritto che il motore dell'auto è in Asia e principalmente in Cina. In questa potenza che marcia come un rinoceronte in corsa, si è affermato il modello delle joint-ventures tra gruppi internazionali e gruppi cinesi. Queste alleanze prevedono il limite del 50 % di partecipazione straniera e l'obiettivo è sia quello di tutelare il marchio sia quello della "produzione snella" e tutto ciò è possibile solo se gruppi di persone con differenti mentalità e capacità tecnico-organizzative, riescono a lavorare insieme. Un po' quello che successe tra la giapponese Nissan e la francese Renault (grazie al CEO Carlos Ghosn), ma non nella fusione tra la Daimler e la Chrysler: i manager tedeschi erano più ordinati ed organizzati di quelli americani, e l'alleanza si ruppe.
La particolarità delle joint-ventures delle case automobilistiche cinesi è la presenza di tre partners, e non due: precisamente uno cinese e gli altri stranieri. Questo permette alla Cina sia di mantenere la propria autonomia, sia di avere le tecnologie ed il know-how, il tutto giocando abilmente sulla competizione tra le due case straniere.
La Volkswagen ha una joint-venture con la prima casa d'auto mondiale, la giapponese Toyota, e la diciottesima (ma prima cinese), la FAW.
Il discorso, per intenderci, è questo: le aziende non cinesi vanno in Cina per aumentare i propri profitti, abbattere i costi in Occidente, e nel frattempo ingrassano le aziende cinesi che un domani mangeranno le stesse aziende straniere. Al contempo si lamentano della concorrenza del Dragone. Piattaforme o meno, non c'è scampo, è una delle leggi del capitalismo: è l'inevitabile suicidio.