Vecchie e nuove migrazioni umane

22/03/14

22/03/14


Terminata l'ultima glaciazione, circa 10 mila anni fa l'umanità raggiunge la soglia massima di popolazione sostenibile da una economia basata sulla caccia e sulla raccolta dei frutti spontanei. Esce da questo vicolo cieco tramite la rivoluzione agricola, partita dalla Mezzaluna Fertile, tra le valli dei fiumi Nilo, Eufrate, Giordano e Tigri. La pratica dell'agricoltura si diffuse in seguito anche in Europa alla velocità media di un chilometro l'anno, giungendo in Inghilterra dopo circa 3500 anni.

Allevamento del bestiame e agricoltura segnarono così la nascita dei grandi regni dell'antichità, della proprietà privata, dello Stato, delle classi sociali e dello schiavismo. Permisero anche ripetuti consistenti aumenti demografici: si calcola che da allora a oggi la popolazione mondiale sia aumentata di migliaia di volte. Ciò, creando nuovi squilibri tra territorio e popolazione, ha rimesso continuamente in moto i flussi migratori, alla ricerca di nuove terre coltivabili.


Uno sguardo ai tempi antichi

Un esempio storicamente molto interessante in tema di migrazioni riguarda proprio l'Italia, ed è noto come "invasioni barbariche", definito più correttamente a livello internazionale dagli storici come "migrazioni di popoli".

A partire dalla fine del IV secolo e.V. un'ondata proveniente dall'Estremo Oriente, in primis degli Unni di Mongolia, si propagò fino a Roma, distruggendo la carcassa socialmente in putrefazione dell'Impero Romano e ponendo le basi etniche ed economico-sociali per la formazione dei futuri Stati europei. Dal V al IX secolo, nonostante l'apparente improduttività, si sviluppò infatti una nuova forma e organizzazione dell'umanità dell'Europa occidentale. Il consistente aumento di popolazione europea in quei decenni riuscì ad attutire le forti perdite portate dalle crociate due secoli più tardi.

Durante il Basso Medioevo, con l'espansione europea a Est dei Germani (chiamata Ostsiedlung), gli Slavi furono costretti a spostarsi a Ovest, insediandosi anche in Italia. La crisi del XIV secolo fermò le migrazioni di popoli, che ripresero a forza alla fine del Quattrocento, dalla cacciata degli ebrei dalla Spagna a quella secentesca dei Mori, sempre dalla stessa regione. Francesi e austriaci non furono da meno, prima con la persecuzione degli Ugonotti (XVI e XVII secolo, che fu anche il periodo di inizio della tratta schiavista di milioni di negri dall'Africa all'America) e poi con quella dei protestanti di Salisburgo nel 1731.

Sviluppo capitalistico ed emigrazione

Ma i flussi migratori più consistenti, anch'essi da considerarsi forzati, saranno causati dalla diffusione del capitalismo e del mercato globale.

Scrive Karl Marx in un articolo del 1853 per il New York Daily Tribune:

In Grecia e a Roma [...] l'intero sistema di quegli Stati si fondava su determinati limiti numerici della popolazione, che non potevano essere superati senza compromettere la stessa situazione della civiltà antica. [...] Perché gli antichi ignoravano del tutto l'applicazione della scienza alla produzione materiale. Per restare civili erano costretti a restare poco numerosi. Altrimenti avrebbero dovuto sottoporsi all'ingrato lavoro fisico, che trasformava il libero cittadino in schiavo. [...] Unico rimedio l'emigrazione forzata. [...]
Ma l'emigrazione forzata dei nostri giorni ha cause del tutto opposte. [...] Non è la popolazione che preme sulle forze di produzione; è la forza di produzione che preme sulla popolazione.

In altre parole, mentre nelle epoche antiche gli esseri umani si mettevano in movimento perché, aumentando il loro numero, la bassa produttività del lavoro non consentiva di vivere tutti nello stesso territorio, nel capitalismo è l'alta produttività del lavoro che, a partire dall'agricoltura, rende superflua una parte della forza-lavoro, spingendola a emigrare.

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Immigrati italiani di fine Ottocento negli USA e in Brasile
Da una parte si disgregava l'economia contadina tradizionale e i piccoli produttori venivano soppiantati dalla nascente industria agro-alimentare che, con un numero inferiore di addetti otteneva una produzione maggiore. Dall'altra l'industria che si stava sviluppando nelle città aveva bisogno di una forza-lavoro libera da ogni vincolo territoriale o corporativo.

Il contadino e il piccolo produttore artigiano vengono rovinati dalla concorrenza dell'impresa capitalistica e trasformati in proletari. Questo processo, doloroso per chi ne è coinvolto, è in realtà un grande progresso, perché la concentrazione dei mezzi di produzione rappresenta un formidabile sviluppo delle forze produttive.

Migranti dell'imperialismo

Nella fase più avanzata del capitalismo, detta imperialismo e già presente nel primo quarto del secolo scorso, assistiamo a un aumento delle migrazioni, ma anche a un cambio delle caratteristiche dei flussi. Rallentano e tendono a esaurirsi i flussi migratori in uscita dai Paesi di più vecchia industrializzazione, mentre la disgregazione contadina in atto in quelli in fase di sviluppo spinge parte della forza-lavoro in eccesso a emigrare verso le potenze più mature.

È il quadro che ancora oggi abbiamo di fronte anche nella sviluppata Europa, quando vediamo milioni di lavoratori che (anche a causa delle guerre, non dimentichiamolo) sono costretti a cambiare continente, abbandonando le terre d'origine e le proprie famiglie, per cercare lavoro a salari più alti. Quando va bene vengono impiegati, spesso in nero, nelle aziende e nei campi agricoli. Quando va male si ritrovano a mendicare, delinquere, soldati delle mafie o, peggio, annegano nel Mediterraneo.