La guerra del 1967 - Parte II

17/01/09

17/01/09


Le "guerre non volute" racchiudono uno dei paradossi della "volontà politica". Esse disvelano la discrepanza tra processi materiali e processi soggettivi, tra forze reali e psicologie individuali e collettive, fra intenzioni calcolate e decisioni assunte sotto l'incalzare di inediti parallelogrammi di forze o sotto il ricatto di un'impasse asfissiante. Appaiono alla concezione soggettivistica come "guerre per caso", laddove invece la "casualità" sono solo i fattori che danno forma al percorso accidentato, attraverso cui le "necessità" si trasformano in "volontà" e arrivano alla superficie per esplodere come vulcani risvegliati.

Nel suo La guerra dei Sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano, 2004, Michael B. Oren paragona il processo che sfociò nel conflitto del 1967 alla nota immagine della farfalla che con un battito d'ali genera un uragano: "la "casualità" dominò tanto la genesi quanto gli esiti del conflitto che si avvitò come una "reazione a catena"". Analogamente Helmut Mejcher (Sinai, 5 giugno 1967: il conflitto arabo-israeliano, 2000) parla della guerra come "risultato di una politica basata su calcoli sbagliati, incomprensioni e mancanza di comunicazione tra Tel Aviv e il Cairo".

Il battito d'ali all'origine dell'uragano del 1967 partì da Mosca, il 13 maggio. Anwar Sadat, presidente dell'Assemblea nazionale egiziana, in visita a Mosca fu informato dai capi del Cremlino dell'imminenza di un'invasione israeliana della Siria, fra il 16 e il 22 maggio. La notizia era falsa. Il Cremlino aveva già altre volte gridato "al lupo" sionista.

La novità fu la diversa reazione dell'Egitto. Una forte frazione dei militari, capeggiata dal feldmaresciallo Abdel Hakim Amer e dal comandante delle forze aeree Muhammad Sidqi Mahmud, cercava la guerra per riscattarsi dal disonore del 1956 e dagli insuccessi yemeniti, convinta di aver accumulato una superiorità su Israele. Nasser temeva che stavolta, se non avesse agito, il suo stesso regime potesse restare travolto. Giocò quindi la carta della ripresa del controllo del Sinai, smilitarizzato dopo la crisi del 1956.

L'accordo tra Egitto e ONU del 1957 dava al Cairo il diritto di chiedere il ritiro dei caschi blu. Il 15 maggio, senza piani precisi, truppe egiziane entusiaste attraversarono il Canale di Suez. In 48 ore l'Egitto trasferì nel Sinai 80000 uomini, 550 carri armati e 1000 cannoni, e chiese il ritiro dell'ONU dalla frontiera con Israele. Il 17 maggio Israele mobilitò 18000 riservisti. Il segretario generale dell'ONU, il birmano U Thant, non ebbe dubbi sulla legittimità della richiesta egiziana e il 19 maggio ordinò ai 4500 uomini dell'UNEF di ritirarsi. Così cadde il primo dei due pilastri su cui si fondava il cessate il fuoco del 1956.

Con il blocco dello stretto di Tiran e del porto di Eilat, la sfida di Nasser toccò il limite estremo, mettendo alla prova il secondo pilastro della tregua del 1956: la promessa statunitense a Israele di ritenere atto di guerra ogni tentativo di bloccare lo stretto. Rabin valutò quest'azione come casus belli.

La rimilitarizzazione del Sinai fu una vittoria politica, ottenuta senza combattere. Perché Nasser la mise a rischio cacciando l'ONU e bloccando Tiran? Mejcher, pur valutando "incomprensibile" la condotta di Nasser e pur non escludendo che fosse caduto "vittima della sua stessa propaganda", ipotizza un calcolo politico. Nasser voleva rilanciare il suo ruolo di leader, battere "l'alternativa islamica al panarabismo nasseriano" dell'Arabia Saudita, neutralizzare la pressione dei suoi militari, togliere iniziativa al regime baathista siriano, promuovere, sotto il suo controllo, la causa palestinese. Il blocco di Tiran, secondo Mejcher, prefigurava un ritorno non solo alla situazione pre-1956 ma a quella del 1948, quando Eilat era un porto palestinese.

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In Israele si aprì una sfibrante battaglia all'interno della leadership politico-militare. Rabin, il 23 maggio, propose un attacco preventivo per annientare l'aviazione egiziana, seguito da un'avanzata nel Sinai; "a differenza del 1956 Israele non poteva contare sull'appoggio di nessuna grande potenza e la sorpresa era la sua unica risorsa". La proposta, sostenuta dai capi dell'opposizione Menachem Begin, capo del partito di destra Gahal, e Shimon Peres, capo del Rafi, fu bocciata dal capo del governo Levi Eshkol e dal ministro degli Esteri Abba Eban: gli USA non avrebbero appoggiato l'offensiva, mentre l'URSS poteva contrastarla; una replica della crisi di Suez in condizioni peggiori.

Washington fu colta impreparata dalla crisi. Eban chiese una dichiarazione solenne della Casa Bianca che un attacco contro Israele sarebbe stato ritenuto atto di guerra contro gli USA. Ma Johnson aveva già la sua guerra e non poteva permettersene un'altra. Fu categorico: "Non sono un re in questo Paese e, dato che posso comandare solo su me stesso, non sarò di nessuna utilità [...] Non ho un solo voto né un solo dollaro per prendere l'iniziativa". Diffidò Israele dal colpo preventivo e offrì l'alternativa d'un convoglio internazionale scortato da navi da guerra e bombardieri anglo-americani che avrebbe sfidato il blocco di Tiran in difesa della libertà di navigazione. Ma il "piano Regatta" si rivelò inattuabile: né il Canada, né nessun grande Paese europeo accettò di parteciparvi, l'Iran rifiutò di aderire, la Casa Bianca comprese che non avrebbe ottenuto il consenso del Congresso, Londra sconsigliò un'operazione anglo-americana mascherata come internazionale.

Nella capitale israeliana si creò uno stallo agghiacciante. Il 27 maggio nove ministri votarono per la guerra preventiva e nove contro. Emersero sintomi di crisi nell'esecutivo. Eshkol ordinò la smobilitazione di 40000 riservisti. I vertici militari lo ignorarono e continuarono a richiamare riserve. Lo stallo di Tel Aviv e l'assenza di una risposta al blocco produssero lo spostamento di Hussein di Giordania a fianco dell'Egitto. Da anni bersaglio di attentati e disprezzo da parte dei panarabisti, Hussein il 30 maggio si presentò a Nasser per offrire un trattato di difesa. Il prezzo pagato da Hussein fu altissimo: si impegnò a ritenere ogni attacco all'Egitto come attacco alla Giordania, ad accogliere contingenti militari arabi, a riaprire gli uffici dell'OLP e a sottomettere la Legione araba al comando del generale egiziano Abdul Munim Riad.

L'azzardo di Nasser sembrava trionfare. Israele era accerchiato: la Giordania schierava 56000 soldati rafforzati da 17000 iracheni e 270 carri armati, la Siria concentrava sul Golan 50000 uomini e 260 carri, l'Egitto nel Sinai aveva ammassato 130000 uomini, 900 carri e 1100 cannoni. Nel Sinai avevano mandato contingenti militari anche Paesi ostili a Nasser, dal Marocco alla Libia, all'Arabia Saudita e alla Tunisia. Gli eserciti arabi mettevano in campo mezzo milione di uomini, 900 aerei da combattimento e 5000 carri armati. Israele opponeva 275000 uomini, 250 aerei da guerra e 1100 carri armati.

In Israele, con l'agitazione dei militari e una potente campagna giornalistica contro l'attendismo di Eshkol, si arrivò il 1° giugno alla formazione di un governo di unità nazionale. Il segno della svolta fu la nomina di Moshe Dayan a ministro della Difesa. La lunga attesa aveva logorato ogni alternativa, il piano Regatta era un guscio vuoto, il freno di Washington non aveva più appigli. Quando il 4 giugno Dayan chiese al governo di autorizzare l'offensiva per l'indomani, né Eshkol né Eban si opposero. La decisione fu presa con 12 voti a favore e 2 contrari.

L'attacco aereo israeliano nel Sinai, il lunedì 5 giugno 1967, ebbe un successo travolgente: la sorpresa fu totale. Nessun comandante egiziano era al suo comando. Quella mattina l'Egitto perse 286 dei suoi 420 aerei da combattimento, quasi tutti distrutti a terra, e un terzo dei suoi piloti. Israele perse solo 17 aerei e si può dire che in tre ore conquistò il controllo totale dei cieli e vinto per metà la guerra. La morale di quel disastro fu sintetizzata dal generale di brigata egiziano Tahsin Zaki: "Israele aveva passato anni ad addestrarsi a quella guerra, mentre noi ci preparavamo alle parate".

Nasser, travolto dalla sconfitta, commise una catena di errori politici. Avallò un precipitoso ordine di ritirata nel Sinai che si trasformò in rotta. Cercò di far entrare in guerra l'URSS, accusando gli Stati Uniti di aver partecipato ai bombardamenti con gli aerei della Sesta flotta. Mosca, adirata per la brutta figura che l'Egitto faceva fare alle armi russe, chiese invece il cessate il fuoco. Nasser vi si oppose, pretendendo una delibera per il ritiro di Israele, e dando così a Tel Aviv il tempo di estendere le sue conquiste. Nel terzo giorno la guerra nel Sinai, in Cisgiordania e a Gerusalemme era vinta. Fu anche il giorno del misterioso attacco israeliano da mare e cielo contro la nave spia americana Liberty nel Mar Mediterraneo, malgrado la bandiera esibita, con 31 morti e 171 feriti. Mejcher non esclude che l'"errore" fosse il modo con cui gli israeliani sgombrarono il campo dai sospetti di collusione israelo-americana e quindi da velleità di interferenza russa.

Il 7 e l'8 giugno furono conclusi gli armistizi con Giordania ed Egitto. Solo il 9 giugno partì l'offensiva sul Golan contro la Siria, che fino a quel momento malgrado l'altisonante retorica guerresca aveva condotto solo intensi attacchi di artiglieria, tenendo le sue truppe trincerate al sicuro. Il giorno dopo la conquista del Golan fu completata e Israele fermò le operazioni, poche ore dopo la mossa teatrale di Mosca che ruppe le relazioni diplomatiche con Tel Aviv, minacciando di intervenire se Israele non avesse interrotto l'avanzata su Damasco.

Il 6 giugno entrò in scena l'"arma petrolifera". Arabia Saudita, Kuwait. Iraq, Libia e Algeria decisero di sospendere le forniture agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna e, in parte, alla Germania. L'afflusso di petrolio arabo, secondo Daniel Yergin, si ridusse del 60 % sottraendo al mercato 6 milioni di barili al giorno; metà dei pozzi mediorientali e nord-africani furono chiusi, gli oleodotti interrotti, Suez bloccato. A fine giugno la guerra civile nigeriana, scoppiata per la secessione della zona petrolifera del Biafra, sottrasse al mercato un altro mezzo milione di barili al giorno. L'Europa riscoprì il suo tallone d'Achille energetico: a fronte degli USA che dipendevano appena per il 3 % dal petrolio arabo, Francia e Italia ne dipendevano per l'83, la Germania per il 73, l'Inghilterra per il 69, il Giappone per il 61 %.

Ma la "guerra petrolifera" seguì le sorti della guerra guerreggiata. nel luglio fu chiaro che l'embargo era fallito, grazie agli aumenti produttivi di USA, Iran, Venezuela e Indonesia e soprattutto grazie all'elevata capacità logistica delle compagnie petrolifere e alle superpetroliere. In agosto, ancora formalmente sotto regime di embargo, gli Stati arabi produssero l'8 % in più di petrolio rispetto all'anteguerra. I costi debilitanti della guerra perduta dovevano essere rapidamente coperti. L'Egitto aveva perso, oltre al Sinai e a Gaza, l'85 % dei suoi mezzi militari, per un valore di 2 miliardi di dollari. Circa 15000 proletari egiziani, 800 israeliani, 700 giordani, 450 siriani persero la vita in sei giorni di conflitto. Circa 250000 palestinesi fuggirono dalla Cisgiordania e 95000 siriani dal Golan.

La geografia politica del Medio oriente cambiò. Israele aveva conquistato 100 mila chilometri quadrati moltiplicando per tre volte e mezzo il territorio avuto alla sua nascita; il nasserismo fu definitivamente sconfitto; nella relazione con Washington, Tel Aviv acquistò un prestigio incomparabile; la reputazione di mosca uscì malconcia e la sua relazione con l'Egitto ferita mortalmente; la questione palestinese divenne il simbolo di una rivincita ad oltranza degli sconfitti. Mai una guerra tanto breve lasciò conseguenze e ferite tanto ampie.