L'industria farmaceutica

01/03/09

01/03/09


In mezzo secolo, i medicinali hanno cambiato la storia naturale, cioè il "normale" decorso di molte malattie. Quanto dell'allungamento delle prospettive di vita sia dovuto alla medicina, e quanto al miglioramento delle condizioni di abitazione, alimentazione ecc., è oggetto di discussione. È, però, indubbio che l'industria dei farmaci ha mutato in profondità (come poche produzioni industriali sono riuscite a fare) non solo le condizioni materiali degli individui, ma anche il loro stesso modo di "pensare la malattia".

La stessa parola "malattia", almeno nei Paesi industrializzati, ha perso in gran parte dei casi il significato terrorizzante che ha storicamente avuto. Un po' come la parola "fame", che da noi evoca più spesso solo una sensazione di piacevole languore anziché l'atavico tormento dell'umanità.

La delusione e l'incredulità sono, quindi, tanto più forti quando ci si scontra con la realtà delle molte malattie ancora incurabili, vecchie e nuove.

Infatti, nel panorama delle attività produttive, mai una branca manifatturiera è stata oggetto di aspettative così grandi e, nello stesso tempo, di critiche tanto feroci quanto l'industria farmaceutica. Soprattutto dopo la Seconda Guerra mondiale, si sono diffuse un'illimitata fiducia e un'impaziente attesa che la scienza medica scopra "una buona volta" una cura per tutte le malattie, dai morbi "inguaribili" alla "patologia" vista come la peggiore e senza rimedio: l'invecchiamento. Da un lato ci si aspetta che le fabbriche materializzino il sapere scientifico in medicinali pronti per l'uso e disponibili nella farmacia sotto casa; dall'altro, è cresciuto un astio rancoroso per un'industria che non solo non è riuscita a mantenere le "promesse", ma si fa anche guidare troppo dalla cinica bussola dei guadagni, tanto che, talvolta, si permette micidiali "sviste".

La grande illusione in una rapida e definitiva vittoria sulle malattie ha alimentato correnti di sfiducia nei prodotti industriali e il ricorso alle "medicine alternative". Un quarto della popolazione mondiale consuma, secondo l'OMS, i tre quarti dei prodotti farmaceutici del mondo e può permettersi di trasformare in bene voluttuario, con un tocco di esotico ed ecologista, quello che nel resto del globo è un'imposizione dell'indigenza. Nei Paesi in via di sviluppo la medicina tradizionale, con tutto il suo misto di "saggezza antica" e ciarlataneria, resta spesso l'unica accessibile. Anche le illusioni hanno prezzi diversi e, da noi, diventano prodotti di lusso.

Le critiche più accese sono però sul piano "morale". Certe pratiche commerciali "disinvolte", certe scelte "ciniche" più o meno accettate nella mentalità generale come inevitabili in altri campi, sono considerate intollerabili per un'attività produttiva che proclama di lavorare con finalità "etiche".

Le imprese farmaceutiche non si comportano diversamente da tutte le altre, e ricorrono senza scrupoli ai mezzi tipici delle guerre commerciali, dal dumping alla violazione delle leggi sulla "proprietà intellettuale", vale a dire dei brevetti. La differenza, se mai, sta negli sforzi che queste aziende fanno per presentarsi come mosse da maggiori motivazioni etiche, avendo come campo di lavoro l'alta scienza e come obiettivo la salute umana.

La scienza si presenta come "essere per il progresso", ma nel capitalismo questo diventa "essere per il plusvalore". L'industria della salute non fa eccezione alla legge del profitto e anzi le motivazioni etiche diventano esse stesse strumenti di marketing.

Un tipico esempio è la battaglia sulla tutela della proprietà delle invenzioni e scoperte. I brevetti hanno sempre costituito una delle armi usate dai trust per trasformare la concorrenza in monopolio e, viceversa, la loro violazione un mezzo per scalzare le posizioni oligopolistiche. L'ideologia della "pacifica" e "onesta" concorrenza corre invece in soccorso dei contendenti nelle guerre economiche.

Per l'industria farmaceutica, fin dalle sue origini, si è da più parti invocato una sorta di principio di eccezionalità, in forza della sua particolare utilità sociale. In base a questo principio si sostiene che la copertura brevettuale sui medicinali non è ammissibile, e che le invenzioni e scoperte in questo campo sono un patrimonio dell'intera umanità. Ma questo vale per tutti i frutti del lavoro sociale, e affermarlo conseguentemente significa opporsi all'appropriazione privata dei prodotti del lavoro sociale. In realtà ciascuna critica alle leggi sui brevetti si spinge a tanto. Ciò che si vuole cercare di ristabilire è la "libera" concorrenza, cioè la libertà di sfruttare le nuove invenzioni e scoperte per ottenere, a loro volta, profitto.

Di questa natura erano le critiche alle posizioni di monopolio che i gruppi chimici tedeschi avevano conquistato e attorno alle quali avevano eretto una barriera di patenti, accordi ecc. Così erano, fino agli anni Settanta, le giustificazioni delle imprese italiane alla loro sistematica violazione delle protezioni brevettuali sulle molecole d'importazione. Così lo sono oggi le motivazioni delle ditte indiane che copiano farmaci occidentali senza pagare royalties.


Per l'ironia della storia, contro le multinazionali con base negli Stati Uniti vengono ritorte le accuse che gli americani muovevano ai tedeschi nei primi decenni del secolo. Queste accuse trovano nuovo vigore nelle varie correnti ideologiche dell'imperialismo europeo. Per una "doppia" ironia, nei giorni successivi agli attacchi dell'11 settembre Washington ha "chiesto" al gruppo tedesco Bayer di "rinunciare" al brevetto sulla sua ciprofloxacina (Ciproxin), l'antibiotico più utilizzato contro il bacillo dell'antrace. Gli attacchi del bioterrorismo con le spore del carbonchio hanno indotto una richiesta di grandi e costosi quantitativi di Ciproxin tanto da spingere il ministro della Sanità americano a chiedere uno stanziamento di fondi eccezionale per farvi fronte. La rinuncia al brevetto da parte della casa tedesca avrebbe ridotto il farmaco al rango di generico consentendo al governo di importarlo a prezzi ridottissimi dai Paesi che già lo copiano illegalmente. L'azienda indiana Rambaxy Laboratories si era subito dichiarata pronta a fornire una grande quantità a un prezzo definito "interessante".

Si potrebbe ipotizzare che, tra i segni "tangibili" di solidarietà, gli USA vi facessero rientrare anche la rinuncia tedesca a un importante brevetto, gettando un medicinale sul tavolo dei rapporti tra le potenze. Le autorità americane hanno invocato la clausola dell'emergenza sanitaria, ma i grandi gruppi hanno avvertito il rischio di un'altra breccia nel sistema internazionale della brevettabilità dei farmaci. Ad aprire la breccia, in questo caso, sarebbero stati proprio gli USA che, anche nella emergenza sanitaria di fine secolo provocata dall'epidemia di AIDS in Africa, si erano battuti in difesa delle multinazionali. Nell'emergenza africana, la richiesta di sospendere i brevetti sugli antivirali per scopi umanitari era venuta dal Sudafrica e in prima fila tra i protagonisti c'era un'altra azienda indiana, la Cipla. Alla fine, pur di non creare un pericoloso precedente, si è scelta la via del compromesso e il gruppo Bayer ha accettato di fornire al governo americano il Ciproxin a metà del suo prezzo.

L'immagine "etica" che le industrie farmaceutiche hanno cercato di costruirsi si ritorce contro di loro. Un altro esempio quello degli orphan drug. Vi sono innumerevoli patologie che vengono trascurate dalla ricerca perché poco diffuse e gli eventuali rimedi avrebbero mercato ristretto e quindi una scarsa remunerazione. Oppure malattie come la malaria, ancora molto diffuse, ma che colpiscono milioni di potenziali "consumatori", ma indigenti. Meglio insistere con l'ennesimo anti-ipertensivo che sicuramente troverà riscontro nell'alta capacità di spesa delle popolazioni anziane tutelate dai sistemi sanitari nei ricchi mercati occidentali. Analogamente, il dibattito sulla ricerca, uso, brevettabilità degli organismi geneticamente modificati e sulle biotecnologie in generale è annegato nel mare delle ideologie nel quale navigano rischi reali e paure irrazionali, mode ecologiste e scontri protezionistici. Le scelte finali in materia saranno dettate dagli interessi finanziari, commerciali e industriali e richiedere alle industrie un comportamento contrario alle leggi del mercato è come pretendere che un asino voli.

Infatti, la produzione dei beni, anche di quelli di "interesse generale" come i medicinali o le attrezzature mediche, è produzione di merci. I loro produttori decidono indipendentemente dagli effetti sociali che ne potranno derivare perché sono essi stessi sottoposti alle leggi della produzione capitalistica.

La scienza applicata alla produzione industriale può, quindi, fornire tanto i rimedi alle malattie quanto i mezzi per provocarle. Durante la Seconda Guerra mondiale nell'ambito delle attività del Comitato per le Ricerche Mediche, le stesse aziende che partecipavano al "piccolo Progetto Manhattan" per la produzione della penicillina, collaboravano alla messa a punto delle armi batteriologiche. Gli studi sulla sospensione della particelle liquide nell'aria potevano servire sia alla messa a punto di aerosol per la cura della bronchite che alla preparazione di gas fumogeni o aggressivi chimici, mentre dalla tecnologia militare derivano attrezzature biomedicali come il laser per la microchirurgia e l'ecografo. Quest'uso bidirezionale della scienza nelle "condizioni capitalistiche della produzione", non viene indirizzato dai buoni sentimenti ma, in ultima analisi, di volta in volta, dalle forze economiche che operano e si scontrano sul mercato nel suo andamento ciclico.

Dalla fine della guerra il processo di concentrazione ha falcidiato le aziende nei nostri Paesi, riducendole a meno di un terzo. L'Italia, che ne aveva 1300 negli anni Cinquanta, oggi ne conta meno di 300. Gli anni Settanta hanno anche visto un tentativo di creare, attorno ad alcune storiche case farmaceutiche italiane, un'impresa di livello nazionale. La battaglia ha coinvolto grandi società industriali e finanziarie italiane e straniere, con i maggiori gruppi del capitalismo di Stato schierati su fronti opposti. Il "tentativo degli anni Settanta" non è riuscito, e il suo epilogo è stata l'acquisizione nel 1993 della Farmitalia-Carlo Erba da parte della svedese Pharmacia. L'industria farmaceutica italiana è uscita dall'arena internazionale, relegata in attività di nicchia o di vendita su licenza.

Negli ultimi vent'anni del XX secolo, due grandi ondate di fusioni e acquisizioni hanno impresso una forte accelerazione al processo di concentrazione di un comparto che è tradizionalmente considerato molto frammentato rispetto ad altri settori industriali. Nel 1979 i primi dieci gruppi non arrivavano al 25 % del mercato mondiale. Nel 1999 controllano circa il 40 %, ma è cambiata la geografia dei rapporti di forza.

Il secolo scorso si era aperto con una posizione di quasi monopolio delle imprese tedesche, e si è chiuso con un netto predominio delle multinazionali americane e angloamericane. Fino alla fine degli anni Settanta le grandi case tedesche guidavano ancora la farmaceutica mondiale, nonostante i disastri di due conflitti, le frammentazioni imposte dai vincitori e il sequestro dei brevetti come "bottino" di guerra. La competizione "pacifica" è riuscita a metterle nuovamente in gravi difficoltà. Molte imprese del Vecchio Continente sono state superate, per innovatività dei prodotti e penetrazione dei mercati, dai concorrenti d'Oltre Atlantico, e sono costrette a correre ai ripari, in una continua lotta per la spartizione del mercato mondiale.