Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di intravedere una qualche promessa.
Umberto Galimberti - psicoanalista e filosofo
Nipote del dio denaro e figlio della pubblicità, il consumismo è quel fenomeno di massa che degrada i rapporti tra uomini in rapporti tra cose. Esso sviluppa la ricchezza sociale a discapito di quella umana.
Prima dell'Oxford English Dictionary, pubblicato tra il 1884 e il 1928, per 170 anni l'Inghilterra ebbe a disposizione un autorevole ed apprezzato dizionario linguistico. L'autore di A Dictionary of the English Language, scritto in soli nove anni, fu il saggista e poeta londinese Samuel Johnson (1709-1784).
Nel 1758 egli pubblicò il settimanale The Universal Chronicle che conteneva il The Idler, una raccolta di saggi che durò fino al 1760. Era il 20 gennaio 1759 quando scrisse nelle colonne del suo giornale: "Gli annunci pubblicitari sono oggi così numerosi che sono letti con molta negligenza, ed è perciò divenuto necessario conquistare l'attenzione con magnificenza di promesse, e con eloquenza talvolta sublime, talvolta patetica". Il The Idler ospitava annunci pubblicitari in ultima pagina già da una decina di numeri.
La dominazione della merce sull'uomo
Nel 1844, studiando gli Elementi di economia politica di James Mill, un giovane Karl Marx agli esordi in questo campo scopre perché la produzione mercantile determina necessariamente la sottomissione degli uomini alle cose. L'uomo è un essere sociale, ma, nel produrre merci, non è guidato da questa sua "essenza". Lo scopo del produttore di merci è impossessarsi, nello scambio, del prodotto del lavoro altrui. I bisogni degli altri uomini per lui non sono un fine: sono un mezzo per il soddisfacimento delle proprie necessità.
Nella società dove prevale la produzione di merci, quindi, gli uomini entrano in rapporto gli uni con gli altri non direttamente in quanto uomini, ma attraverso i rispettivi prodotti. Per questo ne sono dominati. La dipendenza dal lavoro degli altri uomini, figlia della nostra "essenza sociale", non essendo riconosciuta come tale ci si impone come dipendenza dai nostri prodotti diventati merce: "In altri termini", scrive Marx, "il nostro proprio prodotto si è levato sulle zampe posteriori contro di noi; sembrava nostra proprietà, ma in realtà siamo noi la sua proprietà. L'unico linguaggio comprensibile che parliamo fra noi è quello dei nostri oggetti in relazione tra di loro".
Il capitalismo, trasformando tutto in merce, persino la capacità di lavorare, porta all'estremo le contraddizioni connaturate all'assoggettamento dell'uomo al proprio agire sociale, compreso il paradosso per cui nessuno ha realmente interesse ad appagare il bisogno di qualcuno, perché tutti dipendono nella soddisfazione delle proprie esigenze dal permanente rinnovarsi di quelle altrui.
La spesa pubblicitaria
La necessità capitalistica di eccitare, piuttosto che appagare, i bisogni sociali è il presupposto della pubblicità. Questo non è però sufficiente a spiegare un fenomeno che, muovendo dalle ultime pagine dei giornali settecenteschi e passando dalle trasmissioni radiofoniche della prima metà del Novecento, è cresciuto fino alle imponenti dimensioni odierne. Gli investimenti pubblicitari mondiali sono cresciuti del 40 % nel decennio 1995-2005 ed oggi, a causa della crisi, la spesa è la stessa di sette anni fa: poco più di 450 miliardi di dollari (360 miliardi di euro). Il peso assunto dalla pubblicità è strettamente legato ai cosiddetti "dollari discrezionali", termine coniato negli anni Cinquanta dalla sociologia statunitense per definire la quota di reddito disponibile una volta coperte le spese di sussistenza e riproduzione.
In quegli stessi anni la produzione USA era cresciuta del 400 % rispetto al decennio precedente e i dollari discrezionali a disposizione dell'americano medio si erano moltiplicati per cinque. Un 40 % della produzione di beni di consumo non era più legata alle necessità immediate di sopravvivenza, e su questa base oggettiva crescevano gli sforzi soggettivi per "stimolare il mercato". Tutte le armi, a partire dalle nozioni di psicologia scientifica disponibili, erano impiegate per "persuadere" gli americani a spendere e per disputarsi il flusso di dollari in uscita dalle loro tasche.
Si apriva un vasto campo all'investimento pubblicitario, che nel 1955 raggiungeva la vertiginosa somma di 9 miliardi di dollari, corrispondente a 55 dollari per abitante. Cinquant'anni dopo, prima della crisi finanziaria del 2007, la spesa pubblicitaria USA sale a 155 miliardi di dollari, quella pro-capite ha superato i 500 dollari.
Prima eccitare, poi succhiare
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx accosta il produttore di merci all'eunuco che, per carpire il favore del despota, non esita a lusingarne gli istinti più bassi con i mezzi più infami. "L'eunuco dell'industria", scrive Marx, "per cavar fuori l'uccellino d'oro dalle tasche del prossimo" non si comporta diversamente: "ogni prodotto è un'esca con cui si vuole attirare la sostanza dell'altro, il suo denaro, ogni reale o possibile bisogno è una debolezza che condurrà la mosca nella colla".
Lo sviluppo capitalistico e il vertiginoso aumento della produttività del lavoro ad esso collegato, nella misura in cui hanno facilitato il soddisfacimento dei bisogni reali, hanno moltiplicato la necessità di ricorrere all'esca dei bisogni "possibili". Se già Marx vedeva in ogni produttore di merci un potenziale mezzano "che eccita i desideri morbosi, spia ogni debolezza, per poi chiedere il compenso per questo affettuoso servizio", lo sviluppo reale del capitalismo ha finito col generare consistenti quote di consumi socialmente degradanti.
L'economista americano Thorstein Veblen (1857-1929) spiegò l'origine di molte mode tipiche delle classi dominanti proprio con la loro plateale inutilità, esibizione sociale della possibilità di permettersi il superfluo (il mondo della cosmetica ne è un esempio). È sufficiente sfogliare una qualunque rivista a grande tiratura, o trascorrere una serata davanti alla TV o sul web, per vedere come la "debolezza" di voler copiare, o scimmiottare, costumi e stili di vita borghesi sia sfruttata dalla pubblicità per tentare di "attirare" gli euro discrezionali che lo sviluppo imperialistico ha depositato anche nelle tasche dei salariati del Vecchio Continente.
La produzione dell'effimero
Quanto vi sia di inutile e artificiale in molti consumi è testimoniato proprio dalla grande mole di lavoro sociale che è dissipato per stimolare ogni genere di bisogno "possibile". Complesse organizzazioni sociali lavorano non per produrre ciò che serve agli uomini, ma per fabbricare nuovi bisogni che li trasformino in consumatori. La WPP Group (Wire and Plastic Products plc) è un'agenzia pubblicitaria londinese, primo gruppo in Europa e secondo mondiale nel settore dell'advertising con le sue maggiori aziende Ogilvy, Young & Rubicam, Burson-Marsteller. Ha 150 mila dipendenti sparsi nelle oltre 2000 sedi di 107 Paesi che producono un fatturato di 10 miliardi di dollari.
Secondo alcuni studi un consumatore italiano subisce mediamente, ogni giorno, tremila proposte pubblicitarie, ma a sera se ne ricorda soltanto tre.
Il fatturato mondiale della pubblicità, come vedevamo, sfiora i 500 miliardi di dollari annui: ha l'ordine di grandezza di quello del settore siderurgico, ma tutt'altra "utilità" sociale.
La vera società dei consumi
Il pieno ed armonico sviluppo umano non si esaurisce nel possesso di cose, perché il tempo e la possibilità di esprimersi nel lavoro sono altrettanto importanti. I comunisti non sono asceti, e il Manifesto di Marx ed Engels non ha alcuna difficoltà a riconoscere che il capitalismo ha fatto più di qualunque società precedente per mostrare quali "forze produttive fossero latenti in seno al lavoro sociale".
Che una parte delle potenzialità del lavoro sociale vada sprecata in consumi socialmente degradanti e in investimenti socialmente improduttivi è solo una delle manifestazioni dei limiti nell'utilizzo delle forze produttive moderne, quando alla loro prorompente natura sociale continui a sovrapporsi un'anacronistica appropriazione privata (dei mezzi di produzione).