Curiosità scientifiche: l'orologio - Parte II

11/03/13

11/03/13


Fisici contro astronomi

Forse nei prossimi anni si reciderà il legame tra la rotazione della Terra e il tempo segnato dagli orologi atomici. La decisione spetta all'Unione Internazionale delle Comunicazioni, che ha sede a Ginevra, e al Bureau International des Poids et Mesures di Parigi. Gli Stati Uniti premono per accelerare questa scelta facendo propria la proposta di Dennis McCarthy, direttore del National Weather Service della Marina americana. Si tratta, in pratica, di abolire quel secondo che di tanto in tanto si aggiunge per mantenere l'accordo tra la rotazione del nostro pianeta e gli orologi atomici.

Fisici e ingegneri elettronici stanno dalla parte di McCarthy. Gli astronomi si oppongono strenuamente. Entrambi hanno le loro buone ragioni. I fisici ci ricordano che ormai da mezzo secolo gli orologi atomici hanno sorpassato in precisione ogni altro campione di tempo, e in particolare la rotazione della Terra. Gli astroonomi ribattono che però, se vogliono puntare con il telescopio un dato oggetto celeste, è la rotazione terrestre a comandare, precisa o capricciosa che essa sia.


Entrambe le parti sono in conflitto di interessi: i fisici e gli ingegneri elettronici perché difendono il «tempo fisico» segnato dai loro orologi; gli astrologi perché, stando dalla parte della rotazione terrestre, cercano di salvare una loro personale comodità e anche una residua sovranità sulla misura del tempo, la cui origine risale a migliaia di anni fa, ai primi studiosi del cielo sumeri e cinesi. A loro favore c'è un buon argomento. Con il passare di milioni e milioni di anni, tempo atomico e tempo astronomico divergerebbero tanto da arrivare al paradosso che per un orologio atomico sarebbe già notte mentre in realtà in cielo splende ancora il Sole di mezzogiorno. Meglio la precisione o la ragionevolezza?


Orologi e fusi orari

Molti orologi da polso oggi sono radiocontrollati e dispongono di due quadranti virtuali, uno per il luogo dove ci si trova abitualmente e uno impostabile sul fuso orario del luogo dove ci si reca in viaggio.

Il fatto che la Terra sia all'incirca una sfera e che ruoti su se stessa in 24 ore è all'origine di una babele del tempo. A rigore, ogni luogo ha il suo tempo e l'unico orologio che segni l'ora vera per un dato luogo è la meridiana. Niente di grave in un mondo con poche comunicazioni. Ma con la mobilità dei tempi moderni la situazione diventa insostenibile: su lunghe distanze percorse con mezzi veloci occorre un tempo di riferimento per treni, aerei e navi. L'adozione dei fusi orari ha risolto il problema. Sandford Fleming (1827-1915) gode la fama di aver inventato questa convenzione internazionale. In realtà l'idea dei fusi orari si deve a  Quirico Filopanti, nato a Budrio il 20 aprile 1812 e morto nel 1894 a Bologna, dove fu professore universitario di meccanica e idraulica.

Patriota, amico di Garibaldi, mosso da ideali umanitari che si manifestano nella scelta dello pseudonimo Filopanti (amico di tutti) con cui sostituì l'anagrafico Giuseppe Barilli, questo studioso oggi oscuro fu nell'Ottocento un appassionato divulgatore dell'astronomia, un piccolo Flammarion di casa nostra: le sue conferenze richiamavano folle di curiosi del cielo. Per mettere fine alla confusione delle ore locali, Filopanti propone la divisione della Terra in 24 fusi orari in Miranda, un saggio che pubblicò nel 1858 mentre era in esilio a Londra come «sovversivo». La proposta di Sandford Fleming risale al 1878: vent'anni dopo. Mentre la scelta del meridiano iniziale, e quindi dell'ora di Greenwich come riferimento, è del 1884. Particolare curioso: Miranda non solo fu pubblicato a Londra, ma Filopanti, nonostante il titolo latino («cose mirabili»), lo scrisse in inglese.

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Mappa dei fusi orari

Lo scorrere del tempo reale (astronomico) crea parecchie difficoltà nella misura del tempo «ufficiale». Ad esempio, poiché la Terra è tonda e gira su se stessa, il mezzodì, oltre che con le stagioni, cambia con la longitudine. Alla latitudine di Torino basta spostarsi di 20 chilometri in direzione est-ovest per avere già un minuto di differenza nel mezzodì. Il «Sole medio» e i fusi orari intendono appunto rimediare al guazzabuglio degli orari locali. Prima che arrivassero i fusi, molte città avevano adottato per praticità un «tempo medio» convenzionale per evitare noie, divenute particolarmente sgradevoli con il diffondersi delle ferrovie e dei trasporti veloci. Ginevra istituì il tempo medio nel 1780, Londra nel 1792, Parigi nel 1816. In Italia la prima città fu Torino nel 1852, seguita da Roma nel 1855 e Milano nel 1860. I conducenti delle vetture postali regolavano l'orologio alla stazione e comunicavano l'ora ai sagrestani, che la diffondevano dai campanili. La nostra «ora nazionale» risale al 1866 ma solo il segnale della RAI (fornito dall'Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris di Torino, ora assorbito nell'INRIM) ha unificato davvero l'Italia. Chissà che Bossi non abbia in programma un tempo medio padano.

Rimane il fatto che lo stesso riferimento dei fusi, il meridiano di Greenwich, sembra vacillare. Il 30 novembre 1998 - era sabato - i più importanti giornali del mondo pubblicavano in prima pagina una singolare necrologia. Non riguardava il trapasso di qualche personaggio più o meno illustre ma la morte dell'Osservatorio di Greenwich, quello che tuttora, anche defunto, dà al pianeta il Meridiano zero, cioè la linea che, congiungendo il Polo Nord con il Polo Sud e passando, appunto, per il sobborgo londinese di Greenwich, permette di stabilire la longitudine, e quindi anche l'ora in tempo universale, di ogni luogo del mondo.

Parallelamente - ma oggi, a distanza di anni, possiamo dire senza alcun successo - nascevano l'ora e il meridiano di Internet. Insomma: i naviganti del mare perdevano il loro riferimento, quelli della rete finalmente lo trovavano. La prima era una storia di tagli economici alla ricerca scientifica. La seconda una storia di furbizia pubblicitaria. Nicolas Hayek, il padrone della Swatch, offriva agli utenti di Internet la propria sede di Bienne, in Svizzera, come base per contare il tempo della rete e mettere ordine (almeno cronologico) nei traffici telematici. Non contento, proponeva pure di gettar via mminuti e ore per adottare i «beats», una nuova unità di tempo. Un giorno, 1000 beats; 1 beat 86,4 secondi.

La chiusura dell'Osservatorio di Greenwich, ufficialmente decretata il 9 novembre 1998, era l'ultimo atto di una lunga agonia. Da anni l'Osservatorio, a parte lo strumento dei passaggi usato per determinare la linea meridiana e l'ora siderale, non aveva più telescopi. Le luci di Londra li avevano accecati e costretti a emigrare prima a Herstmonceux, nel Sussex, e poi all'isola di La Palma, nell'arcipelago delle Canarie, e in altri luoghi remoti. Dal 1990 anche gli uffici dell'Osservatorio erano finiti a Cambridge. A Greenwich restavano soltanto cimeli da museo, a ricordare che nel 1884, alla Conferenza internazionale di Washington, il suo meridiano era stato prescelto come Meridiano zero e riferimento universale del tempo.

Prima ogni paese si dava un meridiano per far incominciare da sé il resto del mondo e scandire le proprie ore. Persino Torino, di solito così riservata e modesta, aveva il suo meridiano, valido per il regno savoiardo: passava per Palazzo Madama, in piazza Castello.

La convenzione internazionale firmata nel 1884 rifletteva l'epoca: Londra dominava il mondo, il suo fu un meridiano imperialista. Tanto che il geografo tedesco Arno Peters nel 1973 propose di sostituirlo con quello che taglia lo Stretto di Bering, una linea in mezzo al Pacifico, acque di tutti e di nessuno. Un meridiano democratico. Ma neppure quella proposta attecchì. Nessuna astrazione, per quanto ben intenzionata, può vincere sulla concretezza della Storia. Perché, dunque, giunti al 1998, doversi inchinare a un imperialismo svizzero? E poi i navigatori di Internet non hanno bisogno di un loro «tempo universale». Viviamo, grazie a Internet, in un eterno e ubiquo presente.

Una veduta delle cupole dell'Osservatorio di Greenwich
(Credit: Michael A. Stecker

In ogni caso, morto Greenwich, viva Greenwich. Estinto l'Osservatorio fatto di cupole e telescopi, vive quello virtuale, paradossalmente proprio in un sito Internet, alla faccia del signor Hayek. E vive, soprattutto, la sua gloriosa storia. Fondato nel 1675 dal re d'Inghilterra Carlo II con la missione principale di determinare la longitudine, il suo direttore era insignito, fino al 1972, del titolo scientifico-nobiliare di «astronomo reale». Se ne fregiarono, nell'ordine, John Flamsteed, Edmond Halley, James Bradley, Nathaniel Bliss, Nevil Mackelyne, John Pond, George Airy, William Christie, Frank Dyson, Harold Spencer Jones, Richard Woolley, Martin Ryle, Francis Graham Smith, Arnold Wolfendale e Martin Rees. In realtà Woolley, nel 1971, si dimise da direttore dell'Osservatorio e quindi anche da «astronomo reale». A dirigere Greenwich fu chiamata Margaret Burbidge, alla quale però non fu conferita la carica onorifica, forse perché donna. Il titolo araldico fu invece poi ancora riconosciuto al suo successore, Sir Martin Ryle.

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